1. Con sentenza in data 5.5.2008 il GIP di Catanzaro definiva un processo con rito abbreviato a carico di più imputati per una serie di omicidi risalenti agli anni dal 1979 al 1991, in particolare e tra L’altro dichiarava:
– D.R.G. colpevole del delitto di cui al capo AG e, con le attenuanti generiche e di cui all’art. 116 c.p., equivalenti, lo condannava alla pena di quindici anni di reclusione;
– M.A. colpevole dei delitti di cui ai capi D, I, e V e, con le attenuanti generiche equivalenti alle solo aggravanti ritenute in sentenza, ritenuta la continuazione tra i soli capi D ed I, lo condannava alla pena di trenta anni di reclusione;
– P.M. colpevole dei delitti di cui ai capi A, B, D, H, N, AA, AD, AF, AG, AL e, ritenuta l’autonoma continuazione tra i capi B, D, H, N e tra i capi AD e AF, lo condannava alla pena dell’ergastolo.
Provvedeva altresì sulle pene accessorie e sulle domandi civili proposte dal Comune di Cosenza contro P. e M. e dal Comune di Rende e dai congiunti di L.C. contro P..
1.1 La Corte d’assise d’appello di Catanzaro definiva il processo di secondo grado in data 9.10.2009.
Dal dispositivo della sentenza risulta che, in parziale riforma, tra l’altro:
– riconosceva anche al P. le attenuanti generiche con giudizio di equivalenza, riducendo la pena a trenta anni di reclusione;
giudicava prevalenti le attenuanti generiche già riconosciute a M. e, estesa la continuazione a tutti i reati a lui contestati e ritenuti, gli riduceva la pena a diciassette anni di reclusione;
– quanto al D.R. riteneva la continuazione “con i fatti” di cui alla sentenza definitiva della medesima Corte distrettuale in data 6.11.1998, rideterminando la pena complessiva in sette anni due mesi di reclusione.
La motivazione della stessa sentenza, depositata il successivo 16.12.2009, quanto alla posizione del P. argomenta invece del riconoscimento anche per lui della continuazione tra tutti i reati e di una pena finale di venti anni di reclusione.
2. Ricorrono il procuratore generale distrettuale e tutti gli imputati.
2.1 D.R., per il tramite del difensore fiduciario avv. Amato, denuncia, in relazione all’unico capo di imputazione per cui è intervenuta la sua condanna (AG), violazione di legge e vizi di motivazione in relazione all’art. 48 c.p., e art. 125 c.p.p., comma 3, artt. 597, 605, 438 e 64 c.p.p., ed al contenuto della pagine 22 e 23 della sentenza d’appello, per le contestuali affermazioni che il proposito omicidiario sarebbe sopravvenuto, e quindi non avrebbe potuto essere prima dissimulato al D.R., e che tuttavia questi pur non a conoscenza dell’altrui intento avrebbe dovuto prevederlo, stante l’intento punitivo che aveva fin dall’inizio caratterizzato l’azione nei confronti della vittima. La Corte distrettuale, poi, non avrebbe tenuto conto della divergenza tra le dichiarazioni dei vari collaboratori di giustizia “in ordine alla specifica volontà dei singoli partecipanti al delitto”, nè delle affermazioni di costoro ( V., S., G., P.M.) sul fatto che l’intento iniziale degli altri era stato celato al D.R., valorizzando invece le dichiarazioni rese inizialmente dal ricorrente il 30 luglio del 1997, che sarebbero state però inutilizzabili perchè non rinnovate ai sensi della L. n. 63 del 2001, art. 26, comma 2.
In definitiva, erroneamente sarebbe stato applicato l’art. 116.2 c.p., in luogo dell’art. 48 c.p..
2.2 M., con l’avv. Marcello Manna, ricorre con i seguenti motivi di violazione di legge e vizi di motivazione, in relazione:
– agli artt. 335, 407, 414 e 192 c.p.p., artt. 110 e 575 c.p., perchè un primo procedimento a carico dell’imputato “per i medesimi fatti omicidiari” sarebbe stato iscritto ed archiviato nel 1999, venendo poi aperto un secondo nel 2003 per i medesimi fatti, con riapertura però disposta solo il 13-3.2006, dopo l’espletamento di attività investigativa, con la conseguente inutilizzabilità di questa;
– all’art. 414 c.p.p. perchè al momento della riapertura non vi sarebbero state nuove esigenze investigative, essendosi poi svolta una mera reiterazione di interrogatori di collaboratori di giustizia già resi dal 1996;
– agli artt. 178, 179 e 420 quinquies c.p.p., perchè il ricorrente avrebbe rinunciato solo all’udienza (prima della fase di udienza preliminare) del 6.9.2007, sicchè l’omessa traduzione per le udienze successive avrebbe determinato la nullità dell’udienza preliminare e dei successivi atti;
– alla ed circolarltà della prova, in relazione ad incontri tra collaboratori, accertati in sentenze di altri processi, acquisite agli atti;
– all’art. 192 c.p.p., in relazione ai tre omicidi per cui è intervenuta condanna, perchè la Corte distrettuale non si sarebbe confrontata con i motivi d’appello e non avrebbe argomentato sui riscontri individualizzanti, senza affrontare la tematica delle divergenze e degli “insanabili contrasti” specificamente indicati nei motivi d’appello.
2.3 P.M., con il medesimo avv. Marcello Manna, ricorre con i seguenti motivi di violazione di legge e vizi di motivazione:
– i primi tre motivi corrispondono ai motivi primo, secondo e quarto del coimputato M.;
il quarto denuncia il mancato rinnovamento degli interrogatori con le modalità ex art. 64 c.p.p., in relazione alle dichiarazioni dello stesso P.;
– il quinto motivo deduce come mero errore materiale l’indicazione nel dispositivo della pena di anni trenta in luogo di quella di anni venti.
2.4 Il difensore dei ricorrenti M. e P. ha anche presentato un atto denominato “motivi nuovi e memoria”, depositandolo irritualmente presso la cancelleria della Corte d’assise d’appello, che svolge in realtà solo deduzioni di contrasto al ricorso del procuratore generale distrettuale.
2.5 Il procuratore generale di Catanzaro denuncia violazione di legge e vizi di motivazione in punto applicazione dell’istituto della continuazione per tutti e tre gli imputati: ciò nell’epigrafe, ma in realtà rivolge nel ricorso la prima censura all’avvenuto riconoscimento delle attenuanti generiche all’imputato P. M.. Deduce sul punto che il tempo trascorso dai fatti era neutralizzato da numero e gravità dei fatti, dal protrarsì nel tempo delle condotte, mentre la valenza delle intervenute confessioni doveva essere ridimensionata per la successiva ritrattazione e per la loro non decisività probatoria.
Il secondo motivo riguarda il riconoscimento della continuazione.
Relativamente alle posizioni P. e M. deduce che la distanza cronologica tra i diversi reati sarebbe incompatibile con la riconducibilità ad un medesimo disegno iniziale sufficientemente specifico. L’omogeneità delle violazioni e la loro riconducibilità a logiche di permanente contrapposizione tra gruppi mafiosi non sarebbero elementi idonei a superare il dato cronologico, riconducendo gli episodi a scelta di vita o generica tendenza a porre in essere determinati reati, comunque l’attinenza al generico programma criminoso non essendo idonea a determinare la continuazione anche solo con il delitto associativo. Quanto al D.R. è dedotta l’omessa motivazione sul punto.
Nell’esposizione del motivo, questo ricorrente evidenzia la differenza nella pena inflitta al P. quale deliberata nel dispositivo (trenta anni di reclusione) e quella risultante dalla motivazione (venti anni).
3.1 Il ricorso di D.R. è inammissibile.
Va preliminarmente rilevato che costituisce motivo nuovo, in quanto non dedotto nell’atto di appello, il rilievo di presunta inutilizzabilità delle dichiarazioni rese il 30.7.1997 dal D.R. al pubblico ministero. Tale motivo – che laddove deduce un’ipotesi di inutilizzabilità supera il limite intrinseco della novità – è tuttavia formulato in termini generici, anche perchè non introduce elementi anche solo dialettici utili a superare l’insegnamento di Sez. 2^, sent. 21602 del 6.3-25.5.2009 e Sez. 1^, sent. 1563 del 5.12.2006 – 19.1.2007, che hanno escluso l’inutilizzabilità nel giudizio abbreviato delle dichiarazioni etero accusatorie, rese dal coimputato, anteriori all’entrata in vigore della legge 63/2001, con l’affermazione di un principio tanto più efficace per le dichiarazioni auto accusatorie, non oggetto della novità normativa.
Le deduzioni relative al contrasto tra le dichiarazioni dei collaboranti sono sia del tutto generiche, perchè vi è solo un richiamo apodittico ai nomi dei collaboranti, sia nuove rispetto ai motivi di appello, introducendo oltretutto una sollecitazione a mera, e preclusa, rivisitazione del materiale probatorio acquisito.
La deduzione di intrinseca contraddittorietà della motivazione sul punto della non consapevolezza del ricorrente circa l’intento omicidiario e con la tuttavia contestuale affermazione della sua responsabilità ai sensi dell’art. 116 c.p., in luogo della richiesta applicazione dell’art. 48 c.p., è palesemente infondata. La Corte ha condiviso con il primo Giudice del merito una ricostruzione per cui l’intento omicidiario sorge ex abrupto, ad opera degli “stretti esecutori”. Ha però argomentato che – attribuita al D.R. la condotta dell’aver “sequestrato” la vittima, conducendola nel luogo dove si era poi verificato l’evento – questo imputato fosse “certamente in grado di prevedere che nel corso dell’azione potesse maturare il proposito di eliminare del soggetto” fattogli prelevare con una scusa. Il Giudice d’appello è giunto a questa conclusione (conforme a quella del GIP) valorizzando in concreto i rapporti di specifica conoscenza, la caratura criminale dei soggetti (“terribili”) al cui volere prestava “completa adesione”, le concrete dinamiche interne al gruppo mafioso cui pure egli stesso prestava adesione, la conoscenza della linea d’azione del gruppo che comprendeva l’eventuale eliminazione di persone come naturale conseguenza del programma associativo, la natura punitiva dell’azione fin dal suo inizio (“un pestaggio o un ferimento”, pag. 567 sent. primo grado): l’apprezzamento, conforme tra i due Giudici del merito, che tali elementi specifici e concreti rendessero prevedibile, quale logico sviluppo, il fatto omicidiario, si manifesta valutazione di fatto articolata, sorretta da motivazione non apparente ed immune da vizi di manifesta illogicità e contraddittorietà. 3.2 Il ricorso di M.A. è inammissibile.
I primi due motivi sono generici: assorbente è la considerazione che, con il primo, non si specifica quali sarebbero gli atti inutilizzabili e la loro decisività per la deliberazione di responsabilità (da ultimo, SU sent. 23868 del 23.4-10.6.2009), mentre, con il secondo, nulla si deduce sul contenuto dei nuovi interrogatori nel raffronto con i precedenti e sulla specifica decisività con riferimento all’imputazione, formulandosi un inammissibile generico invito al confronto tra i testi scritti, che evidenzia la mancanza di autosufficienza del ricorso.
Anche il terzo motivo è generico. Risulta assorbente la considerazione della Corte d’appello che, in epoca successiva all’udienza del 6.7.2007, l’imputato tramite il suo difensore procuratore speciale ha, nel corso successivo della medesima fase, chiesto il giudizio abbreviato: e nulla deduce sul punto il ricorso, che è pertanto apodittico nella prospettazione delle conseguenze pregiudizievoli della nullità affermata. Ma addirittura dai verbali delle successive udienze (7.4, 22.4 e 5.5.2008) risulta che il M. ha partecipato in videoconferenza: altro determinante aspetto su cui il ricorrente nulla argomenta.
Pure il quarto motivo è del tutto generico, contenendo censure che, da un lato, non consentono alcun specifico necessario confronto con i singoli passaggi motivazionali della sentenza d’appello e, dall’altro, richiamano il contenuto degli atti d’appello e delle sentenze di altri processi, acquisite agli atti, in termini tali che imporrebbero alla Corte di legittimità l’autonoma lettura e soprattutto l’autonoma individuazione dei punti da confrontare con la motivazione d’appello: il che costituisce violazione palese dell’obbligo di specificità del motivo.
E’ generico infine il quinto motivo. L'”incongruità” della motivazione, denunciata dal ricorrente, non è vizio riconducitele alla manifesta illogicità o alla contraddittorietà risultante dal testo della sentenza (Sez. 6^, sent. 32221 del 17.7-23.8.2010).
Nuovamente, il rinvio del tutto generico ai motivi d’appello e l’affermazione altrettanto generica delle divergenze tra le dichiarazioni dei collaboratori viola l’obbligo di specificità del motivo, avendo per contro la Corte distrettuale indicato l’autonomo e rinnovato percorso logico-valutativo che, reato per reato, l’ha condotta alle determinazioni adottate (conformi, sul punto responsabilità, a quelle del Giudice di primo grado).
3.3 I motivi di P. diversi dall’ultimo sono infondati.
I primi tre lo sono per le stesse ragioni argomentate per gli omologhi motivi del coimputato M..
Il quarto motivo è, nei termini in cui è concretamente prospettato nel ricorso, del tutto generico, comunque nulla avendo dedotto il ricorrente sulla decisività per la deliberazione delle dichiarazioni, che si vorrebbero dichiarate inutilizzabili (SU sent.
23868/2009 già richiamata).
Il quinto motivo prospetta come mero errore materiale nella determinazione della pena la discrasia tra dispositivo e motivazione, e di questo si tratterà in immediato seguito.
3.4 Il motivo di ricorso della parte pubblica in ordine al riconoscimento delle attenuanti generiche all’imputato P.M. è inammissibile perchè pone censure di stretto merito, sollecitando un diverso apprezzamento di fatto, precluso in questa sede di legittimità.
Il motivo relativo alla continuazione riconosciuta al D.R. è manifestamente infondato, e quindi inammissibile, perchè sul punto la Corte distrettuale ha argomentato in modo non apparente a pag. 24.
Il motivo relativo alla continuazione riconosciuta all’imputato M. è inammissibile, perchè diverso da quelli consentiti: la Corte d’appello ha giudicato “artificiosa” la riconduzione dei diversi omicidi a continuazioni spezzate in ragione del tempo di consumazione, tra gruppi di delitti, ritenendo che fosse palese l’appartenenza delle tre consumazioni di reato ad un medesimo disegno criminoso, individuabile nell’intento di eliminare sistematicamente tutti i soggetti che potevano creare intralcio o rappresentare un pericolo per l’esistenza e la sopravvivenza del sodalizio (assunto non considerabile solo apodittico o espresso con motivazione apparente, dalla descrizione sommaria dei fatti in sentenza risultando sempre una volontà in qualche modo sanzionatoria che li aveva caratterizzati). Si tratta di un apprezzamento di stretto merito, non intrinsecamente contraddittorio o manifestamente illogico laddove collega la volontà di eliminazione – come deliberazione assunta in via definitiva – alla ricorrenza di casi che presentino le caratteristiche previste ab origine (Sez. 6^, sent. 2960 del 21.9 – 15.10.1999) e che, per contro, coglie la possibile illogicità di una “continuazione a gruppi di omicidi”, a fondamento della quale vi sia in realtà solo il dato della (occasionale) contiguità temporale.
Rispetto a tale apprezzamento di merito, il motivo del procuratore generale si risolve nella sollecitazione ad una sua mera rivisitazione, non compatibile con il giudizio di legittimità.
Quanto alla continuazione in favore del P., l’inammissibilità del motivo è immediata ed inevitabile conseguenza dell’assenza di una tale corrispondente efficace statuizione nella sentenza impugnata, per quanto di seguito si argomenterà. 3.5 In ordine infatti al trattamento sanzionatorio relativo all’imputato P.M., il dispositivo esplicita una deliberazione complessivamente, e palesemente, del tutto diversa da quella indicata ed argomentata nella motivazione.
In effetti il dispositivo (anche nella sua formulazione originale ed autonoma letta in udienza, pag. 378 e 379 atti del processo d’appello) contiene, in relazione a P., la sola deliberazione del riconoscimento delle attenuanti generiche, con giudizio di equivalenza rispetto alle aggravanti ritenute, e la rideterminazione della pena in trenta anni di reclusione (rispetto all’ergastolo deliberato in primo grado).
Nulla è detto nè di una modifica del punto della decisione relativo alla continuazione nè di un’ulteriore riduzione della pena.
Va anzi evidenziato che il dispositivo è assolutamente coerente sul punto specifico del trattamento sanzionatorio: di fatto, il trattamento che risulta (generiche equivalenti, “passaggio” dall’ergastolo ai trenta anni) è non solo del tutto legittimo ma anche sistematicamente corretto, realizzando un trattamento che nella sostanza ripercorre il percorso logico valutativo che il GIP aveva deliberato in primo grado per il coimputato M..
E’ noto che la giurisprudenza di questa Corte risolve il tema della patologica diversità tra dispositivo e motivazione in termini volta a volta diversi, congrui alle variabili sistematiche possibili sul piano astratto (motivazione contestuale, sentenza camerale deliberata senza lettura preliminare del dispositivo, dispositivo letto e pubblicato in udienza con successiva redazione della motivazione), e comunque con attenzione alla peculiarità del caso concreto, per verificare l’effettivo contenuto della deliberazione come in ogni caso cristallizzatasi nel momento della sua prima “esternazione”. Il principio di diritto che è stato e va affermato nei casi – come quello che ci occupa – di dispositivo letto in esito alla discussione, con separata e successiva stesura della motivazione non quindi letta in unitario contesto alla pubblicizzazione del dispositivo – è che il contenuto del dispositivo prevale sempre e comunque, ogni qual volta esso non si appalesi intrinsecamente incoerente ovvero non presenti delle parziali omissioni nelle singole determinazioni che conducono alla determinazione della pena che risulta positivamente irrogata, omissioni non colmabili con automatismi ricavabili dall’applicazione al caso concreto della disciplina generale (si pensi, per mero esempio, al caso di una pena corrispondente nella sostanza al minimo edittale meno la massima riduzione per le attenuanti generiche e meno la riduzione per il rito abbreviato, in un dispositivo che non citi espressamente la riduzione per il rito ovvero l’eventuale giudizio di bilanciamento pur in presenza di circostanze aggravanti).
Orbene, nella nostra fattispecie, poichè la motivazione non è stata redatta contestualmente alla deliberazione del dispositivo letto in udienza, le diverse statuizioni contenute ed argomentate nella motivazione sono del tutto irrilevanti ad incidere sul decisum, che è solo quello contenuto nel dispositivo: ciò perchè, come già evidenziato, la statuizione emergente nel dispositivo quanto al P. è appunto intrinsecamente coerente e non offre margine alcuno per essere ritenuta originariamente viziata. Ogni eventuale “ripensamento” successivo, che abbia dato origine alla del tutto diversa argomentazione e determinazione contenute nella motivazione è, per quanto osservato, del tutto irrilevante.
3.5.1 Il motivo del procuratore generale volto al contrasto del riconoscimento della continuazione ‘totalè in favore del P. è pertanto, come anticipato, inammissibile, perchè tale statuizione non è allo stato contenuta nella deliberazione della Corte d’assise d’appello di Catanzaro quale formalizzata nel dispositivo letto in udienza. Nè la parte pubblica ha “attaccato” specificamente il punto della quantificazione della pena, avendo dichiaratamente richiamato la discrasia solo come argomento dialettico a sostegno della tesi dell’eccessiva benevolenza dei Giudici d’appello nei confronti del P..
3.5.2 Alla luce delle considerazioni svolte, anche la formale richiesta, contenuta nel ricorso P., di “correzione dell’errore materiale” va pertanto rigettata. Se alla deliberazione relativa alle attenuanti generiche equivalenti si fosse realmente accompagnata, nel medesimo dispositivo, una esplicita deliberazione di riconoscimento della complessiva continuazione per tutti i delitti per i quali è intervenuta condanna, la pena avrebbe potuto essere quella ritenuta in motivazione (ex art. 73 c.p., comma 2) e conseguentemente questa Corte avrebbe potuto provvedere ai sensi dell’art. 619 c.p.p..
Ma l’assenza in dispositivo di alcuna statuizione sulla continuazione, le modalità di confezionamento del dispositivo (dove è assente alcun allarme di anomalia, vuoi sintattica vuoi semantica o pure meramente grammaticale) e la coerenza sistematica intrinseca del trattamento sanzionatorio emergente dal dispositivo indicano che la decisione, consapevole, è stata altra.
3.5.3 Tuttavia, si deve osservare che, sia pure proponendo una soluzione infondata, comunque la parte privata ha dedotto specificamente con il ricorso il punto della discrasia tra dispositivo e motivazione, sollecitandone la rimozione. La denuncia specifica di tale discrasia, tenuto conto della radicale incompatibilità dei due momenti – deliberazione nel dispositivo, spiegazione delle ragioni della deliberazione nella motivazione -, può essere interpretata come doglianza di omessa motivazione del trattamento sanzionatorio come in effetti deliberato in dispositivo.
E poichè è allo stato indubbio che la statuizione del dispositivo è priva di motivazione, consegue l’annullamento della sentenza impugnata limitatamente al punto della decisione afferente il trattamento sanzionatorio di P.: con le precisazioni che seguono.
E’ in giudicato ex art. 624 c.p.p., commi 1 e 2, il riconoscimento a P. delle attenuanti generiche con giudizio di equivalenza.
Tutto quanto ritenuto nella motivazione è assolutamente irrilevante ed inefficace a costituire alcuna preclusione di giudizio favorevole all’imputato: in particolare i relativi passaggi motivazionali afferenti computo e determinazione della pena, in quanto allo stato del tutto incoerenti con il dispositivo, sono privi di alcuna efficacia vincolante, per sè e in alcuno di essi (dalla determinazione della pena base per il primo reato, al riconoscimento della complessiva continuazione, e così avanti). Il Giudice del rinvio conseguentemente potrà procedere al nuovo esame dei motivi originari di P., relativi ai vari punti che concorrono al trattamento sanzionatorio conclusivo, con pieno esercizio della discrezionalità attribuita al giudice del merito dalla disciplina pertinente al caso, con i soli limiti del già positivamente e legittimamente deliberato riconoscimento delle attenuanti generiche con giudizio di equivalenza nonchè del massimo di pena, che non potrà essere superiore ai trenta anni di reclusione già deliberati nel dispositivo letto all’udienza del 9.10.2009. 4. Consegue la condanna dei ricorrenti M. e D.R. al pagamento delle spese processuali e della somma, ciascuno, di Euro 1.000,00 (congrua in relazione ai singoli casi) in favore della Cassa delle ammende.
M. e P. devono invece risarcire le spese di lite per il grado alle parti civili COMUNE DI COSENZA – entrambi – e COMUNE DI RENDE – il P. -, nei termini di cui al dispositivo (la condanna del P. consegue al passaggio in giudicato dei punti della decisione afferenti la responsabilità penale e civile, ai sensi dell’art. 624 c.p.p.).
Annulla la sentenza impugnata nei confronti di P.M. limitatamente alla misura della pena e rinvia per nuovo giudizio ad altra sezione della Corte d’assise d’appello di Catanzaro.
Rigetta nel resto il ricorso di P..
Dichiara inammissibile il ricorso del Procuratore Generale.
Dichiara inammissibili i ricorsi di M. e D.R., che condanna ciascuno al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00, alla Cassa delle ammende.
Condanna il P. e il M. a rimborsare in solido alla parte civile COMUNE DI COSENZA le spese del grado che liquida in complessivi Euro 2000 oltre IVA e CPA, nonchè il P. (-) a rimborsare le stesse spese, in identica misura, al COMUNE DI RENDE. Così deciso in Roma, il 2 dicembre 2010.