PATROCINANTE IN CASSAZIONE

SI RICEVE SU APPUNTAMENTO

Avvocato Paolo Alfano Giurisprudenza penale Non sussiste il reato di coltivazione di sostanze stupefacenti se la piantina di marijuana non ha completato il ciclo annuale di maturazione

Non sussiste il reato di coltivazione di sostanze stupefacenti se la piantina di marijuana non ha completato il ciclo annuale di maturazione

In tema di coltivazione di sostanze stupefacenti, la Suprema Corte si colloca sulla scia segnata dalle note sentenze della Corte costituzionale n. 360/1995 e delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 28605/2008 che, nel valorizzare la portata del principio di offensività in materia penale, hanno affermato la necessità che il giudice di merito verifichi, di volta in volta, se la condotta contestata all’agente sia assolutamente inidonea a porre in pericolo il bene giuridico protetto, risultando in concreto inoffensiva. Sulla scorta di questo principio, l’A. esamina la sentenza Cassazione, Sez. IV, 14 gennaio 2009, n. 1222 che giunge ad affermare che non integra il reato di cui all’art. 73 DPR 309/90 la condotta di coltivazione di piantine di cannabis che non hanno ancora concluso il proprio ciclo di crescita, e che non hanno quindi prodotto sostanza idonea all’accertamento concreto della presenza di principi attivi.

(Articolo pubblicato in “Strumentario Avvocati – Rivista di Diritto e Procedura penale”, n. 4/2009)

Premessa: il quadro legislativo in materia di stupefacenti

La sentenza in esame costituisce il primo arresto della giurisprudenza di legittimità dopo la nota pronuncia delle Sezioni Unite del 10.7.2008 n. 28605 (Cass., Sez. Unite Pen., sent. 10.7.2008 n. 28605, in questa Rivista, 2008, 11, 62), in materia di coltivazione c.d. domestica di piantine di sostanze stupefacenti.

Appare utile, allo scopo di ricostruire i mutamenti che si sono registrati in giurisprudenza in ordine all’annoso problema della rilevanza penale della condotta di coltivazione di piantine stupefacenti e ad i suoi rapporti con il principio di offensività, prendere le mosse da un rapido excursus in ordine all’evoluzione della legislazione italiana in materia di stupefacenti.

Prima della riforma del 1975, la legislazione in materia di stupefacenti appare fortemente orientata in chiave repressiva, in quanto attribuiva rilevanza penale non solo alle condotte di spaccio, ma anche alle condotte di detenzione finalizzate all’uso personale ed a prescindere dal quantitativo di sostanza stupefacente detenuta (art. 151 del Testo Unico delle leggi sanitarie, approvato con r.d. 27.7.1934, n. 1265; art. 6, co. 4, l. 22.10.1954, n. 1041).

Con la Legge 22.12.1975, n. 685, che costituisce la prima disciplina organica della materia, viene introdotto un principio del tutto innovativo, quello della non punibilità “di chi illecitamente acquista, o comunque detiene” modiche quantità di sostanza stupefacente per uso esclusivamente personale (art. 80). Viene dunque introdotto il concetto di “quantità modica”, come parametro quantitativo essenziale da utilizzare come criterio di discrimine tra le condotte non punibili ai sensi dell’art. 80 e le condotte penalmente rilevanti indicate agli artt. 71 e 72 (concernenti rispettivamente la condotta di chi “senza autorizzazione produce, fabbrica, estrae, offre, pone in vendita, distribuisce, acquista, cede o riceve a qualsiasi titolo, procura ad altri, trasporta, importa, esporta, passa in transito o illecitamente detiene” sostanze stupefacenti in quantità non modica, e la condotta di chi “senza autorizzazione o comunque illecitamente detiene, trasporta, offre, acquista, pone in vendita, vende, distribuisce o cede” modiche quantità di sostanza stupefacente per uso non personale).

La scelta del Legislatore del 1975 di escludere la rilevanza penale della condotta di detenzione di  modiche quantità di sostanze stupefacenti non destinate a terzi, appare ispirata, come i primi commentatori non hanno mancato di rilevare, all’idea secondo cui lo Stato non può comprimere la libertà dell’individuo di drogarsi, quale espressione della sfera di libertà garantita ad ogni cittadino, nonché alla convinzione che un sistema siffatto è in grado, a differenza dei sistemi repressivo – proibizionisti, di evitare l’indiscriminato ed incontrollabile sviluppo del traffico illecito di sostanze stupefacenti.

Dopo i primi anni di applicazione della nuova legge, peraltro, il Legislatore non potè che constatarne il fallimento. Non è questa la sede per esaminare le ragioni che indussero il Legislatore a superare l’impianto della legge del 1975 (la carenza di strutture pubbliche deputate al recupero dei tossicodipendenti, la scarsa entità del sostegno alle comunità di recupero, etc.). Si può solo accennare alle incertezze applicative e alle oscillanti interpretazioni giurisprudenziali generate dalla indeterminatezza del concetto di “modica quantità”.

Nel 1990, dopo un tormentato iter parlamentare vede la luce la Legge 26.6.1990 n. 162, pressoché immediatamente trasfusa nel Testo unico in materia di stupefacenti e sostanze psicotrope, approvato con d.p.r. 9.10.1990 n. 309.

Si tratta di un intervento che ribalta la logica precedente, e che appare ispirarsi ad una visione di netto sfavore nei confronti non soltanto del traffico, ma anche dell’assunzione, e quindi dell’uso esclusivamente personale, di sostanze stupefacenti. Prendendo atto del fallimento del precedente regime di non punibilità, infatti, il Legislatore sancisce esplicitamente l’opposto principio del divieto dell’uso personale di sostanze stupefacenti, oltre che di qualunque altro impiego non autorizzato delle stesse (art. 72 t.u.).

Il Testo unico, nella sua formulazione originaria, reprime come illecito amministrativo le condotte di acquisto, importazione e detenzione per uso personale di sostanza stupefacente in quantità corrispondente alla c.d. dose media giornaliera, fissata con decreto ministeriale (art. 75 t.u.). Il concetto generico di “modica quantità” viene così sostituito con quello di “dose media giornaliera”, determinabile secondo i criteri prefissati dall’art. 78.

Sono, invece, assoggettate a sanzione penale le condotte di acquisto, importazione e detenzione di sostanze stupefacenti in quantità superiore alla dose media giornaliera nonché le condotte di chi “coltiva, produce, fabbrica, raffina, vende, offre o mette in vendita a qualsiasi titolo, trasporta, procura ad altri, invia, passa o spedisce in transito, consegna per qualsiasi scopo” sostanze stupefacenti (art. 73 t.u.).

L’esito del referendum popolare del 18 – 19 aprile 1993 ha portato, tuttavia, all’abrogazione del divieto, sancito dall’art. 72 t.u., dell’uso personale di sostanze stupefacenti (abrogazione qualificata,  da Cass., Sez. Unite Pen., sent. 18.6.1993, CP, 1993, 2818 come vera e propria abolitio criminis), e all’eliminazione del riferimento al concetto di “dose media giornaliera”, con ciò determinando un decisivo cambio di rotta nella disciplina in materia di stupefacenti.

A seguito del referendum, infatti, risultano penalmente sanzionate le sole condotte, elencate all’art. 73 t.u., comportanti la destinazione delle sostanze stupefacenti a terzi, mentre le condotte elencate all’art. 75 t.u., caratterizzate dalla destinazione delle sostanze stupefacenti all’uso esclusivamente personale, sono sanzionate soltanto in via amministrativa.

L’esito del referendum abrogativo del 1993 ha posto all’attenzione dell’interprete il problema dell’individuazione della linea di discrimine tra le fattispecie sanzionate solo in via amministrativa (caratterizzate dalla destinazione all’uso personale), e le fattispecie sanzionate penalmente (caratterizzate dalla destinazione a terzi).

La giurisprudenza di legittimità ha allora elaborato i c.d. indici di destinazione a terzi della sostanza stupefacente, quali l’elemento quantitativo; la qualità soggettiva del detentore (tossicodipendente o no); il giudizio di compatibilità tra le condizioni economiche dello stesso e la detenzione della droga; la qualità dello stupefacente; le modalità della custodia e del confezionamento; il ritrovamento di materiale idoneo allo spaccio.

Tali criteri sono stati poi sostanzialmente trasfusi nel d.l. 30.12.2005 n. 272, convertito in l. 21.2.2006 n. 49, che, nel modificare l’art. 73 t.u., ha introdotto un nuovo co. 1 – bis. Pertanto oggi, ai sensi dell’art. 73 co. 1 t.u., è sanzionata penalmente la condotta di chi, senza autorizzazione, “coltiva, produce, fabbrica, estrae, raffina, vende, offre o mette in vendita, cede, distribuisce, commercia, trasporta, procura ad altri, invia, passa o mette in transito, consegna per qualunque scopo sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I prevista dall’articolo 14”. Il nuovo co. 1 – bis dell’art. 73 t.u. a sua volta punisce, con le medesime pene previste dal co. 1, la condotta di chi, senza autorizzazione, “importa, esporta, acquista, riceve a qualsiasi titolo o comunque illecitamente detiene: a) sostanze stupefacenti o psicotrope che per quantità, in particolare se superiore ai limiti massimi indicati con decreto del Ministro della salute emanato di concerto con il Ministro della giustizia sentita la Presidenza del Consiglio dei Ministri-Dipartimento nazionale per le politiche antidroga, ovvero per modalità di presentazione, avuto riguardo al peso lordo complessivo o al confezionamento frazionato, ovvero per altre circostanze dell’azione, appaiono destinate ad un uso non  esclusivamente personale; b) medicinali contenenti sostanze stupefacenti o psicotrope elencate nella tabella II, sezione A, che eccedono il quantitativo prescritto”.

L’evoluzione giurisprudenziale in materia di coltivazione di piantine di sostanza stupefacente

Nel Testo unico la condotta di coltivazione di piantine di sostanze stupefacenti non è richiamata né dal co. 1 – bis dell’art. 73 t.u. (che subordina la rilevanza penale delle condotte elencate al raggiungimento, mediante gli elementi indiziari indicati, della prova circa la destinazione a terzi della sostanza stupefacente), né dall’art. 75 t.u. (che qualifica come illeciti amministrativi le condotte elencate, connotate dalla destinazione della sostanza stupefacente all’uso personale), ma dall’art. 73 co. 1 t.u., il quale la assoggetta tout court a sanzione penale, a prescindere dalla destinazione della sostanza all’uso personale o di terzi.

Il referendum abrogativo del 1993, infatti, nell’elidere la rilevanza penale dell’uso esclusivamente personale della sostanza stupefacente, non ha riguardato la condotta di coltivazione.

In dottrina e in giurisprudenza è allora emersa la tesi secondo cui l’esito del referendum abrogativo avrebbe determinato un’ingiustificata disparità di trattamento tra la condotta di coltivazione, da una parte, e, dall’altra, le condotte che a norma dell’art. 75 t.u. vengono qualificate come illeciti amministrativi in caso di destinazione della sostanza all’uso personale.

Secondo questa tesi, nei casi in cui può ritenersi che la sostanza prodotta per effetto della condotta di coltivazione sia destinata all’uso personale (in ragione, per esempio, della modesta estensione della coltivazione, della qualità delle piante, del loro grado di tossicità), deve escludersi ogni rilevanza penale della fattispecie (tra le altre, Cass., Sez. Sesta Pen., sent. 18.1.2007 n. 17983, GDir, 2007, 23, 5; App. Trento, sent. 14.2.2007, GM, 2007, 2402; App. Catanzaro, sent. 7.5.2002, RFI, 2005, voce “Stupefacenti”, 29).

Alla base di questo orientamento sta la nota distinzione dottrinaria e giurisprudenziale tra coltivazione in senso tecnico – agrario e coltivazione c.d. domestica.

Si parla di coltivazione in senso tecnico – agrario in presenza di un’attività su larga scala, caratterizzata dalla “disponibilità di un terreno e da una serie di attività dei destinatari delle norme sulla coltivazione (preparazione del terreno, semina, governo dello sviluppo delle piante, ubicazione dei locali destinati alla custodia del prodotto, etc.), quali si evincono dagli artt. 27 e 28 t.u.” (Cass., Sez. Sesta Pen., sent. 12.7.1994, CP, 1995, 3085), che sono ex se incompatibili con la destinazione della sostanza prodotta all’uso personale in quanto “idonee ad accrescere effettivamente ed in modo significativo la provvista disponibile di stupefacente in circolazione “ (Trib. Roma, 27.2.2001).

Al contrario, la c.d. coltivazione domestica è la condotta, modesta e rudimentale, del soggetto che fa crescere nella propria abitazione (in vasi sul terrazzo o in giardino) un esiguo numero di piante da cui è possibile ricavare un modesto quantitativo di droga bastevole esclusivamente per l’uso personale. In tal caso, secondo l’orientamento in esame, si esula dalla nozione di coltivazione di cui al Testo unico del 1990, e la condotta va ricompresa piuttosto nel più ampio concetto di “detenzione” che l’art. 75, utilizzando l’espressione “chiunque…comunque detiene”, assoggetta a sanzione amministrativa in caso di destinazione all’uso personale.

Il parametro normativo su cui poggia tale orientamento è costituito dagli artt. 27, 29 e 30 del t.u., i quali prevedono che chi intenda coltivare piante contenenti sostanze stupefacenti deve, per non incorrere in sanzione penale, munirsi di apposita autorizzazione ministeriale, il cui rilascio è subordinato dalla legge alla sussistenza di determinate condizioni, quali: la disponibilità di un terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità dei locali per la raccolta dei prodotti. Dal dettato normativo si desume che le attività di coltivazione che non presentino tali caratteristiche, e che vengono appunto inquadrate nel concetto di coltivazione c.d. domestica, non sono soggette ad autorizzazione e sono, quindi, lecite.

L’orientamento opposto, più restrittivo, ritiene invece che la destinazione all’uso personale delle sostanze stupefacenti non possa avere alcun rilievo al fine di escludere la rilevanza penale della condotta di coltivazione (tra le altre, Cass., Sez. Sesta Pen., sent. 9.6.2004 n. 31472, RP, 2005, 1025; Cass., Sez. Quarta Pen., sent. 19.1.2006 n. 10138, CED Cassazione, 2006).

Ciò in quanto il reato di coltivazione appartiene alla categoria dei reati di pericolo astratto o presunto, rispetto ai quali il giudice non è chiamato ad effettuare alcun accertamento in ordine all’ effettiva verificazione di una situazione di pericolo per il bene protetto, dovendo soltanto verificare la sussistenza degli elementi esplicitamente previsti dalla norma incriminatrice. Inoltre, si fa leva sul tenore letterale dell’art. 75 t.u., il quale nell’individuare le condotte integranti illecito amministrativo in caso di uso personale, non menziona la condotta di coltivazione (la quale, invece, è espressamente assoggettata a sanzione penale dall’art. 73 t.u.).

Si può dire che i due opposti orientamenti giurisprudenziali abbiano oggi trovato una felice sintesi grazie all’approccio intermedio inaugurato dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 360 del 1995 (Corte cost., sent. 24.7.1995 n. 360, CP., 1995, 2820), confermato poi dalla sentenza n. 28605 del 2008  delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione.

La Corte costituzionale, nella sentenza del 1995, ritiene non fondata la questione di legittimità costituzionale della disciplina del Testo unico del 1990 che diversifica il trattamento riservato, da un lato, alle condotte di coltivazione (rispetto alle quali la sanzione penale è prevista, ex art. 73 co. 1 t.u., a prescindere dalla destinazione della sostanza all’uso personale o di terzi) e, dall’altro, alle condotte di importazione, esportazione, acquisto, ricezione e detenzione (assoggettate a sanzione penale solo in caso di destinazione della sostanza vietata a terzi, costituendo in caso contrario un mero illecito amministrativo).

La Corte, in particolare, ritiene che la rilevata diversità di trattamento sia giustificata dal fatto che le condotte poste a raffronto non sono tra loro equiparabili, perché “la detenzione, l’acquisto e l’importazione di sostanze stupefacenti per uso personale rappresentano condotte collegate immediatamente e direttamente all’uso stesso (…) e per il fatto di approssimarsi all’area di non illiceità penale (quella del consumo), si giovano di riflesso di una valutazione di maggiore tolleranza”; invece, “nel caso della coltivazione manca questo nesso di immediatezza con l’uso personale e ciò giustifica un possibile atteggiamento di maggior rigore”.

Il Giudice delle Leggi evidenzia inoltre che la valutazione ex ante del quantitativo di droga ricavabile dalle piante coltivate e la correlata valutazione della destinazione della droga stessa all’uso personale, piuttosto che allo spaccio, “risultano maggiormente ipotetiche e meno affidabili”, tali da rendere maggiormente pericolosa la condotta di coltivazione rispetto alle altre proprio per la “maggiore potenzialità diffusiva delle sostanza stupefacenti estraibili”.

Per queste ragioni, deve anche escludersi che la disciplina posta dal Testo unico del 1990 contrasti con il principio di offensività, che, nella sua accezione di “offensività in astratto”, impone al legislatore di incriminare esclusivamente condotte lesive o pericolose per il bene giuridico protetto. Nell’incriminare la condotta di coltivazione, dice la Corte, il Legislatore rispetta pienamente il principio di offensività in astratto poiché la coltivazione è attività potenzialmente idonea a porre a repentaglio il bene della salute collettiva, “per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia prima e quindi di creare potenzialmente più occasioni di spaccio di droga”.

In tal modo, viene recepito l’orientamento più restrittivo emerso in giurisprudenza, con un temperamento: è vero, dice la Corte, che il reato di coltivazione è un reato di pericolo astratto, ma ciò non significa che la condotta di coltivazione sia penalmente rilevante ogniqualvolta sia accertata la sussistenza degli elementi costitutivi della fattispecie penale. Anche i reati di pericolo astratto, infatti, devono essere reintepretati alla luce del principio di offensività (inteso, questa volta, come offensività in concreto), sicchè ove il giudice accerti che la condotta posta in essere dall’agente sia assolutamente inidonea a porre in pericolo il bene giuridico protetto (per il fatto che dalle piantine coltivate sia possibile estrarre un quantitativo talmente esiguo di principio attivo, da non poter indurre alcun apprezzabile stato stupefacente), deve escludersi la riconducibilità della condotta alla fattispecie astratta delineata dal legislatore, e deve piuttosto parlarsi di reato impossibile ex art. 49 c.p. per mancanza di offensività in concreto.

A questa tesi hanno aderito da ultimo anche le Sezioni Unite della Corte di Cassazione con la sentenza n. 28605 del 2008.

La sentenza delle Sezioni Unite n. 28605 del 2008

A seguito della sentenza n. 360 del 1995 della Corte costituzionale, l’orientamento assolutamente maggioritario della giurisprudenza di legittimità ha costantemente affermato, in linea con il Giudice delle Leggi, che la condotta di coltivazione di piante da cui possono estrarsi sostanze stupefacenti è penalmente rilevante a prescindere dalla destinazione all’uso personale o di terzi. La destinazione all’uso personale non può assumere alcun rilievo, sia perché difetta il nesso di immediatezza della coltivazione con l’uso personale, sia perché non è possibile determinare a priori il quantitativo di sostanza stupefacente ricavabile. Per questo, il differente trattamento che il Legislatore riserva alla coltivazione rispetto alla mera detenzione appare giustificato in ragione della maggiore pericolosità ed offensività insita nella condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti, tesa alla creazione di nuove disponibilità, con conseguente pericolo di circolazione e diffusione della droga nel territorio nazionale e rischio per la salute pubblica.

È dunque opinione comune l’idea secondo cui il Legislatore, nell’escludere (in base al criterio dell’uso esclusivo dello stupefacente) la rilevanza penale delle solo condotte menzionate all’art. 75 t.u., ha effettuato una precisa scelta di campo nel senso dell’applicazione della generale disciplina proibizionistica  alla condotta di coltivazione, e ciò allo scopo di colpire, in vista della tutela di superiori interessi collettivi, una delle fonti di produzione delle sostanze, per l’immanente pericolo di dilatazione e propagazione del degenerativo fenomeno delle tossicomanie.

In linea con la sentenza n. 360 del 1995 della Corte costituzionale, ancora, l’orientamento maggioritario ribadisce che ove la sostanza ricavabile dalla coltivazione sia assolutamente inidonea a porre in pericolo il bene giuridico tutelato, ben può il giudice di merito escludere l’offensività in concreto della condotta e ritenerla pertanto non punibile (Cass., Sez. Quarta Pen., sent. 6.2.2004 n. 4836; Cass., Sez. Quarta Pen., sent. 8.3.2006 n. 8142, CED Cassazione, 2006; Cass., Sez. Quarta Pen., sent. 6.6.2005 n. 20938).

Peraltro, è dato riscontrare un diverso orientamento, certamente minoritario, il quale ha continuato a sostenere che la coltivazione c.d. domestica non rientra nella fattispecie tipica della coltivazione ex art. 73 co. 1 t.u., ma confluisce piuttosto nel più ampio genus della “detenzione” di cui all’art. 75 t.u., risultando conseguentemente depenalizzata se finalizzata all’uso esclusivamente personale (Cass., Sez. Sesta Pen., sent. 10.5.2007 n. 17983).

Questo orientamento ripropone dunque la distinzione tra coltivazione domestica e coltivazione in senso tecnico – agrario ovvero imprenditoriale. Così, per esempio, Cass., Sez. Sesta Pen., sent. 31.10.2007 n. 40362, secondo cui: “la coltivazione di piante da cui possono ricavarsi sostanze stupefacenti, che non si sostanzia nella coltivazione in senso tecnico – agrario ovvero imprenditoriale, e ciò per l’assenza di alcuni presupposti, quali la disponibilità del terreno, la sua preparazione, la semina, il governo dello sviluppo delle piante, la disponibilità di locali per la raccolta dei prodotti, e che, pertanto, rimane nell’ambito concettuale della c.d. coltivazione domestica, ricade, pur dopo la novella introdotta con la L. n. 49 del 2006 di conversione del d.l. n. 272 del 2005, nella nozione, di genere e di chiusura, della detenzione, sicchè occorre verificare se, nella concreta vicenda, essa sia destinata ad un uso esclusivamente personale del coltivato” (nel caso sottoposto all’attenzione della Corte, si trattava di cinque piante di canapa indiana, una delle quali immersa in una vasca piena d’acqua, destinate ad adornare l’interno di vasetti di vetro che, riempiti di paraffina e muniti di stoppino, venivano messi in commercio come lumini; nella sentenza in esame, la Corte afferma coerentemente alle premesse che tale condotta non integra gli estremi del reato previsto dall’art. 73 t.u.).

Anche nell’ambito dell’orientamento maggioritario, comunque, è dato riscontrare un contrasto giurisprudenziale tra quanti, in ossequio all’insegnamento di Corte cost. n. 360/1995, ritengono di poter escludere la rilevanza penale delle condotte di coltivazione di piantine da cui possa estrarsi un quantitativo di principio attivo talmente minimo da non poter produrre alcun apprezzabile effetto stupefacente (Cass., Sez. Sesta Pen., sent. 14.4.2003 n. 24622, CP, 2004, 1756); e quanti, invece, ritengono che sussiste il reato di cui all’art. 73 co. 1 t.u. “ogniqualvolta venga coltivata anche una sola piantina idonea a produrre sostanza stupefacente, appartenente ad una delle specie vietate, indipendentemente dalla percentuale di sostanza pura o di principio attivo presente nelle infiorescenze e nelle foglie”, in ragione del fatto che “la coltivazione non autorizzata di piante, dalle quali sono estraibili piante stupefacenti o psicotrope, costituisce reato di pericolo presunto o astratto, essendo punito ex se il fatto della coltivazione, senza che per l’integrazione del reato sia necessario individuare l’effettivo grado di tossicità della pianta e senza che occorra far riferimento alcuno alla sostanza stupefacente che da essa si può trarre e che può dipendere da circostanze contingenti, connesse alla sua crescita, al suo sviluppo ed alla sua maturazione” (Cass., Sez. Quarta Pen., sent. 10.1.2008 n. 871).

In questo quadro si inserisce la sentenza delle Sezioni Unite della Corte di Cassazione n. 28605 del 2008, che intende affrontare e risolvere le due principali questioni che agitano la giurisprudenza in ordine alla coltivazione di piantine di stupefacenti, ovvero la questione della ragionevolezza del differente trattamento riservato dal Legislatore alla condotta di coltivazione rispetto alle condotte di acquisto, importazione e detenzione, e la questione attinente all’operatività del principio di offensività (in concreto) nell’applicazione della norma penale incriminatrice.

Sotto il primo profilo, la Suprema Corte recepisce appieno l’insegnamento di Corte cost. n. 360/1995, ribadendo il principio secondo il quale costituisce illecito penale qualsiasi attività non autorizzata di coltivazione di piante dalle quali sono estraibili sostanze stupefacenti, anche quando essa sia realizzata per la destinazione del prodotto ad uso personale.

Le argomentazioni addotte dalle Sezioni Unite per sostenere tale assunto sono le stesse già svolte nel 1995 dalla Corte costituzionale, con riferimento in particolare alla mancanza del nesso di immediatezza tra la coltivazione e l’uso personale (a differenza delle condotte di acquisto, importazione e detenzione, collegate immediatamente e direttamente all’uso medesimo), ed all’impossibilità di determinare ex ante la potenzialità della sostanza drogante ricavabile dalla coltivazione, “così da rendere ipotetiche e meno affidabili le valutazioni in merito alla destinazione della droga all’uso personale piuttosto che alla cessione”.

Secondo le Sezioni Unite, ancora, il diverso trattamento cui il Legislatore assoggetta le condotte di coltivazione si giustifica in relazione al fatto che esse, a differenza delle condotte di detenzione, si caratterizzano per un dato essenziale e distintivo, che è quello di “contribuire ad accrescere (in qualunque entità), pure se mirata a soddisfare esigenze di natura personale, la quantità di sostanza stupefacente esistente”.

Infine, il profilo dell’offensività astratta della fattispecie prevista dall’art. 73 co. 1 t.u., qualificata come reato “di pericolo di pericolo” (inteso come “pericolo, derivante dal possibile esito positivo della condotta, della messa in pericolo degli interessi tutelati dalla normativa in materia di stupefacenti”), viene ritenuto sussistente in quanto la pericolosità della condotta di coltivazione si correla alle “esigenze connesse alla tutela della salute collettiva connesse alla valorizzazione del pericolo di spaccio, derivante dalla capacità della coltivazione, attraverso l’aumento dei quantitativi di droga, di incrementare le occasioni di cessione della stessa ed il mercato degli stupefacenti fuori del controllo delle autorità”. E la salute collettiva è certamente bene giuridico di rango primario, tale da legittimare il Legislatore ad anticiparne la tutela ad uno stadio antecedente il pericolo concreto. Senza dimenticare poi che, come già le Sezioni Unite avevano rilevato in passato (Cass., Sez. Unite Pen., sent. 24.6.1998 n. 9973, CP, 1998, 3232), le fattispecie incriminatrici di cui all’art. 73 t.u. sono poste a tutela, oltre che della salute pubblica, di altri beni giuridici primari quali la sicurezza e l’ordine pubblico, nonché la salvaguardia delle giovani generazioni.

Nella sentenza delle Sezioni Unite, ancora, emerge la chiara ricusazione della distinzione, di impronta giurisprudenziale e dottrinaria, tra coltivazione domestica e coltivazione in senso tecnico – agrario, non giustificata alla stregua del dato letterale delle disposizioni del Testo unico.

Quanto al secondo aspetto esaminato dalle Sezioni Unite, vale a dire quello attinente all’operatività, rispetto alle condotte di coltivazione, del principio di offensività in concreto, è dato innanzitutto riscontrare come la sentenza in esame affermi a chiare lettere la necessità che, in ogni caso, il giudice del merito proceda alla verifica dell’offensività specifica della singola condotta in concreto accertata, ovvero alla verifica in ordine al se la condotta posta in essere abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene – interesse tutelato.

Con riferimento alla condotta di coltivazione, le Sezioni Unite sembrano prendere posizione a favore dell’orientamento più rigoroso emerso in giurisprudenza, volto ad escludere la rilevanza penale della condotta soltanto “se la sostanza ricavabile dalla coltivazione non è idonea a produrre un effetto stupefacente in concreto rilevabile”. Questa interpretazione è stata ritenuta in dottrina tale da adombrare sospetti di illegittimità costituzionale, per violazione dell’art. 3 cost., della disciplina di cui al Testo unico del 1990: in particolare, l’irragionevolezza della disparità del trattamento riservato alle condotte di coltivazione, rispetto alle condotte di detenzione, acquisto ed importazione, sarebbe rappresentata dal fatto che “sarebbero di rilevanza solo amministrativa condotte di detenzione anche di quantitativi di significativa consistenza, mentre sarebbe da ritenere (sempre e comunque) penalmente rilevante la condotta di chi coltivi una o due piantine di canapa da cui potrebbe ricavarsi un quantitativo di droga senz’altro inferiore” (Amato G., La coltivazione di piante da stupefacenti, in GM, 2008, 7-8, 1811).

La sentenza n. 1222 del 2009 della Quarta Sezione della Corte di Cassazione

Con questo arresto del 14 gennaio 2009 (Cass., Sez. Quarta Pen., sent. 14.1.2009 n. 1222), la Suprema Corte affronta ancora una volta il tema della rilevanza penale della condotta di coltivazione, per uso personale, di piantine da cui sono estraibili sostanze stupefacenti.

Questi in sintesi i fatti di causa.

Con sentenza pronunciata il 3 luglio 1998, il Tribunale di Urbino condanna alla pena di un anno e quattro mesi di reclusione e sette milioni di lire di multa M. D., in quanto ritenuto colpevole del reato di cui all’art. 73 del Testo Unico in materia di stupefacenti (d.p.r. 9 ottobre 1990, n.309), per avere coltivato, senza la prescritta autorizzazione, 23 piantine di sostanza stupefacente (del tipo cannabis sativa), in una fascia di terreno nei pressi della propria abitazione.

Tale sentenza viene confermata dalla Corte di Appello di Ancona in data 23 ottobre 2003.

La Corte di merito osserva che la condotta di coltivazione di sostanze stupefacenti o psicotrope costituisce reato, indipendentemente dalla destinazione e dall’uso che l’agente intende fare della sostanza. Il richiamo, da parte dell’appellante, all’art. 75 del Testo unico non è pertinente, poiché la norma, nel qualificare come illecito amministrativo le condotte ivi elencate, qualora risulti la destinazione della sostanza ad uso personale, fa riferimento alle attività di importazione, acquisto e detenzione e non all’attività di coltivazione. Ciò appare coerente con la maggiore pericolosità dell’attività di coltivazione, finalizzata alla produzione di nuova sostanza stupefacente.

La Corte di appello sostiene inoltre l’irrilevanza, ai fini dell’integrazione della fattispecie di cui all’art. 73 d.p.r. 309/1990, dell’accertamento relativo al quantitativo di principio attivo che è possibile estrarre dalle piantine: nel caso di specie, secondo la Corte, non ha rilievo la completa assenza di principio attivo nelle 23 piantine coltivate da M. D., in quanto attraverso la consulenza tossicologica era stato accertato che se le piantine avessero completato il proprio ciclo di maturazione avrebbero prodotto una notevole quantità di principio attivo.

L’imputato ricorre in Cassazione sostenendo la carenza della motivazione della pronuncia di appello, nella parte in cui afferma che le piante, avendo attecchito al terreno, sarebbero giunte a maturazione producendo una notevole quantità di principio attivo. Infatti, sostiene l’appellante, perché le piante giungano a maturazione e producano sostanza drogante è necessario il concorso di una serie di altri fattori favorevoli (terreno, clima, etc.), la cui sussistenza non è stata oggetto di accertamento.

Si profila così, secondo l’appellante, l’ipotesi di omissione di concreto accertamento della messa in pericolo del bene protetto dalla norma incriminatrice.

La Suprema Corte, nella sentenza in esame, giunge ad affermare la liceità penale della condotta posta in essere dall’agente, attraverso un percorso argomentativo assai articolato che prende le mosse dall’individuazione del bene giuridico tutelato dal Testo unico in materia di stupefacenti.

La S.C. afferma in proposito che la normativa in materia di stupefacenti è posta a tutela del bene – salute, da intendersi “non come diritto soggettivo individuale, ma come bene di cui l’individuo è portatore nell’interesse della collettività”. Nel Testo unico del 1990, dunque, la salute rileva non come diritto soggettivo di natura individuale, ma nella sua dimensione generale, involgendo la posizione del singolo quale membro della comunità sociale.

Se questa interpretazione può essere condivisibile, desta invece qualche perplessità la successiva affermazione secondo cui le fattispecie di reato previste dal Testo unico del 1990 pongono in pericolo la salute degli assuntori “a seguito di prolungate assunzioni, nessuna delle quali è normalmente idonea a compromettere il bene tutelato”, venendo in rilievo “condotte seriali con effetti cumulativi”. Questa impostazione pare contrastare con la ratio della disciplina in materia di stupefacenti, la quale persegue l’obiettivo della tutela della salute pubblica mediante l’incriminazione di singole condotte, che non necessariamente si configurano in concatenazione o continuazione con altre.

Il percorso argomentativo della sentenza in esame si dipana poi coerentemente dall’individuazione della salute quale bene – interesse tutelato dalla normativa sugli stupefacenti, alla valutazione della compatibilità della normativa stessa con il principio di offensività o necessaria lesività. Tale principio comporta che l’incriminazione di un fatto attinente a sostanze stupefacenti sia giustificata solo se si tratti di condotta offensiva della salute, quale bene – interesse di rilevanza costituzionale. È chiaro infatti che il bene della libertà personale, cui l’art. 13 cost. attribuisce rilievo fondamentale tra i diritti inviolabili della persona umana, può essere sacrificato soltanto per la tutela di un interesse di pari rango.

La S.C. ricorda come l’elaborazione dottrinale e giurisprudenziale in tema di principio di offensività

si ricolleghi alla concezione materiale o realistica del reato, la quale, ricostruendo il reato come fatto conforme al modello legale e lesivo dell’interesse tutelato, in caso di scissione tra tipicità ed offensività disconosce rilevanza penale al fatto, tipico ma non offensivo, accertato dal giudice. Secondo tale concezione, l’art. 49 cpv c.p. costituisce, più che un completamento della disciplina del delitto tentato, attraverso l’affermazione della non punibilità del tentativo impossibile, un principio generale, operante in ogni settore dell’ordinamento, in base al quale non sono punibili i comportamenti conformi al tipo descrittivo ma non lesivi dell’interesse protetto.

La Cassazione ribadisce la validità della distinzione, di matrice dottrinaria e giurisprudenziale, tra offensività in astratto della fattispecie incriminatrice ed offensività in concreto della specifica condotta accertata. Il principio di offensività, in forza del quale non è concepibile un reato senza offesa (nullum crimen sine iniura), secondo la consolidata giurisprudenza costituzionale opera su due piani, rispettivamente della previsione normativa, sotto forma di precetto rivolto al legislatore di prevedere fattispecie che esprimano in astratto un contenuto lesivo o comunque la messa in pericolo di un bene o interesse oggetto di tutela penale (offensività in astratto), e della applicazione giurisprudenziale (offensività in concreto), quale criterio interpretativo-applicativo affidato al giudice, tenuto ad accertare che il fatto reato abbia effettivamente leso o messo in pericolo il bene o l’interesse tutelato (C. cost., sent. 7.7.2005 n. 265).

Sotto il primo profilo, la S.C. richiama le considerazioni svolte, in tema di coltivazione di sostanze stupefacenti, dalla Corte costituzionale nella sentenza n. 360 del 1995, poi ribadite dalle Sezioni Unite nella sentenza n. 28605 del 2008.

La fattispecie che incrimina la coltivazione di sostanze stupefacenti appare rispettosa del principio di offensività perché è “idonea ad attentare al bene della salute dei singoli per il solo fatto di arricchire la provvista esistente di materia e quindi di creare occasioni di spaccio di droga; tanto più che l’attività produttiva è destinata ad accrescere indiscriminatamente i quantitativi coltivabili. Si tratta quindi di un tipico reato di pericolo connotato dalla necessaria offensività, proprio perché non è irragionevole la valutazione prognostica sottesa alla astratta fattispecie criminosa di attentato al bene giuridico protetto”.

Sotto il secondo profilo, quello attinente all’offensività in concreto, la Cassazione richiama ancora una volta quanto affermato dalla sentenza della Corte costituzionale n. 360 del 1995, la quale aveva rilevato che ove la singola condotta in concreto accertata dal giudice sia assolutamente inidonea a porre a repentaglio il bene giuridico tutelato, viene meno la riconducibilità della fattispecie concreta a quella astratta perché l’indispensabile connotazione di offensività in astratto di quest’ultima implica di riflesso la necessità che anche in concreto l’offensività sia ravvisabile almeno in grado minimo, nella singola condotta dell’agente, in difetto di ciò venendo la fattispecie a refluire nella figura del reato impossibile ex art. 49 c.p.

La S.C. coglie anche l’occasione per sottolineare il superamento dell’opposto orientamento giurisprudenziale che, al contrario, sosteneva che la rilevanza penale della condotta di coltivazione non potesse essere esclusa per il fatto che dalle piante non fosse possibile estrarre un quantitativo di sostanza drogante tale da indurre un apprezzabile effetto stupefacente (per esempio, vedi Cass., Sez. Unite Pen., sent. 24.6.1998 n. 9973, CP, 1998, 3232: “in tema di stupefacenti, scopo dell’incriminazione delle condotte previste dall’art. 73 DPR 309 del 1990 è quello di combattere il mercato della droga espellendolo dal circuito nazionale, poiché, proprio attraverso la cessione al consumatore viene realizzata la circolazione della droga e viene alimentato il mercato di essa che mette in pericolo la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico, nonché il normale sviluppo delle giovani generazioni. Ne consegue che, avendo, nel nostro ordinamento, la nozione di stupefacente natura legale – nel senso che sono soggette alla normativa che ne vieta la circolazione tutte e soltanto le sostanze stupefacenti indicate negli elenchi appositamente predisposti – la circostanza che il principio attivo contenuto nella singola sostanza oggetto di spaccio possa non superare la cosiddetta soglia drogante, in mancanza di ogni riferimento parametrico previsto per legge o per decreto, non ha rilevanza ai fini della punibilità del fatto”).

Siffatto orientamento è criticabile, ad avviso della S.C., per il fatto che, dinanzi all’accertamento dell’assenza di pericolo specifico per il bene – salute, fa riferimento al pericolo per beni giuridici non contemplati dalla Carta Costituzionale (quali la sicurezza, l’ordine pubblico e il normale sviluppo delle giovani generazioni). Il bene della salute viene ad essere affiancato da altri beni – interessi, ritenuti strumentali alla tutela del primo, “che è quindi ridimensionato come strumento di orientamento dell’intervento punitivo dello Stato-  o viene sovradimensionato – mediante il ricorso a beni giuridici di vaga determinazione, che ne ampliano la sua influenza, pur in assenza di specifica offensività”.

In tal modo tale orientamento, nonostante l’assenza di efficacia drogante e, quindi, l’assenza del profilo di offensività specifica per il bene della salute, non esclude la rilevanza penale del fatto, in quanto “l’attitudine offensiva della condotta viene proiettata su interessi visti come strumenti per una mediata tutela del bene costituzionalmente protetto (quale la lotta al mercato della droga), o su valori, quali la sicurezza e l’ordine pubblico e il normale sviluppo delle giovani generazioni, visti come strumenti per una più estesa tutela di questi beni”.

La S.C., dunque, supera l’orientamento giurisprudenziale che prescinde dall’effettiva tossicità del prodotto della coltivazione, facendo leva sull’assunto secondo cui “l’abbandono del riferimento costituzionale quale indice di ricerca degli interessi tutelabili, comporta il venir meno della funzione del principio di offensività quale criterio di controllo della aderenza ai principi costituzionali dell’intervento repressivo”.

In questo modo, dice la Corte, si cade in un equivoco metodologico, determinando una confusione tra l’omnicomprensivo e dilatabile concetto di ratio legis ed il concetto di bene giuridico, che dovrebbe essere assunto come interesse predefinito e preesistente rispetto alla legislazione penale, legittimato da norme costituzionali anche implicite e funzionalmente destinate a delimitare l’area dell’illiceità penale.

Non va mai dimenticato che la Costituzione costituisce la base giustificativa, sotto il profilo della ragionevolezza, dell’intervento punitivo dello Stato, nel senso che ogni scelta di politica criminale, per essere rispettosa del principio di uguaglianza – ragionevolezza di cui all’art. 3 cost., è subordinata all’esito positivo del vaglio sul razionale bilanciamento dei beni – interessi contrapposti e sulla proporzione tra mezzi approntati ed il fine perseguito.

Nel bilanciamento di principi di rango costituzionale con il principio cardine della libertà personale di cui all’art. 13 cost., si pone il problema della possibilità che questo bilanciamento coinvolga i generici beni che sono indicati nella sentenza delle Sezioni Unite del 1998 (“la salute pubblica, la sicurezza e l’ordine pubblico, nonché il normale sviluppo delle giovani generazioni”), non menzionati esplicitamente dalla Carta costituzionale.

Deve piuttosto ritenersi che, dinanzi a condotte tipiche ma concretamente non pericolose per la salute individuale e collettiva tutelata dalla Costituzione, il giudice, guidato dai principi di offensività e della ragionevolezza, “deve chiedersi se possa esercitare il potere punitivo dello Stato, sacrificando la libertà personale, per tutelare il bene della salute, dinanzi a una offensività, non ravvisabile neanche in grado minimo, nella singola condotta dell’agente”. Per essere meritevole di punizione, la condotta tipica deve avere come oggetto “sostanze stupefacenti aventi un requisito formale (rientrare negli elenchi delle tabelle) e sostanziale (avere efficacia stupefacente o psicotropa e quindi capacità o potenzialità lesiva)”. Se quest’ultimo requisito risulta assente, il giudice deve escludere la rilevanza penale del fatto.

Sulla scorta di tale percorso argomentativo, la S.C. giunge alfine ad affermare che nel caso sottoposto alla sua attenzione (concernente, come visto, una condotta di coltivazione domestica di piantine di cannabis che non avevano ancora concluso il proprio ciclo di crescita), in concreto non è rilevabile alcun effetto stupefacente per non avere la pianta ancora prodotto sostanza idonea a costituire oggetto del concreto accertamento della presenza di principi attivi.

Fonte: dirittoeprocesso.com

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