Cass. civ. Sez. Unite, Sent., 08-08-2011, n. 17077
Con ricorso notificato al Consiglio dell’Ordine degli Avvocati di Roma e alla Procura Generale della Repubblica presso questa Corte Suprema di Cassazione, l’avv. M.F. chiede la cassazione della sentenza indicata in epigrafe, con la quale il Consiglio Nazionale Forense, suo giudice disciplinare di appello, gli ha inflitto la sanzione della sospensione dall’esercizio dell’attività professionale per la durata di mesi sei, confermando la decisione di primo grado del CO.A. di Roma.
L’avv. M. è stato ritenuto responsabile dei seguenti illeciti disciplinari:
“a) Conferiva mandato professionale all’avv. M.B. affinchè questi patrocinasse in giudizio società e persone fisiche già dallo stesso rappresentate nonchè affinchè (sic) lo patrocinasse in giudizio per questioni personali, in particolare nel ricorso promosso innanzi ai TAR del Lazio contro il Ministero della Pubblica Istruzione – giudizio articolatosi in varie fasi e conclusosi con l’assegnazione della somma di Euro 475.828,98, più Euro 2.800,00 di spese legali – non provvedendo a corrispondere al collega gli onorari a lui dovuti per la prestazione effettuata, con ciò violando i doveri di probità, correttezza e colleganza di cui ai codice deontologico forense. In Roma fino alla data odierna. b) In sede di tentativo di conciliazione innanzi al Consigliere Segretario si impegnava a valutare una proposta transattiva previo esame dell’elenco dettagliato degli incarichi predisposto dall’esponente, omettendo poi invece di riscontrare la lettera in data 31.08.2006 da quest’ultimo inviatagli. In Roma fino alla data odierna. c) Ometteva di riscontrare le comunicazioni aventi ad oggetto la richiesta di deduzioni da parte del Consiglio inviate in data 10.10.2006 e 20.11.2006, con ciò violando l’obbligo di collaborazione con il Consiglio dell’Ordine”.
Il ricorso è affidato ad un unico complesso motivo ed il ricorrente chiede anche la sospensione del provvedimento impugnato.
Il C.O.A. Non ha svolto attività difensiva.
I P.G. ha chiesto il parziale accoglimento del ricorso.
Il ricorso appare fondato in relazione alle censure concernenti i capi:
a) e c) della incolpazione.
Con l’unico articolato motivo di ricorso, l’avv. M., denunciando la violazione degli artt. 23 e 24 Cost., l’eccesso di potere e la illogicità della decisione impugnata, sostiene, innanzitutto, che i fatti contestati sub b) e c) non costituiscono illecito disciplinare perchè espressione del diritto di difesa che può essere legittimamente esercitato anche mediante comportamenti omissivi, i quali, quindi, non possono essere oggetto di sanzioni disciplinari.
Nè rileva, come invece argomenta il CNF, che nella specie si tratti di comportamenti tenuti anche prima della formale incolpazione.
La censura appare fondata in relazione al capo c).
Il CNF, dopo avere rilevato che, a norma dell’art. 24, comma 1 del codice deontologico forense, “la mancata risposta dell’iscritto agli addebiti comunicatigli e la mancata presentazione di osservazioni e difese non costituisce autonomo illecito disciplinare”, ha ritenuto sanzionabile disciplinarmente il comportamento doppiamente omissivo dell’avv. M., per non aver dato seguito all’impegno di valutare una proposta transattiva in sede di tentativo di conciliazione, e a due richieste di deduzioni del COA. In linea di principio, secondo la più recente giurisprudenza di questa Corte, nel procedimento disciplinare non si può distinguere una fase istruttoria predibattimentale, nella quale vi sarebbe un obbligo di collaborazione dell’iscritto all’ordine, in deroga al diritto di difesa esercitabile solo successivamente, in sede dibattimentale (quando eventualmente il danno da collaborazione ormai è fatto): “una fase preliminare del procedimento non è prevista dalla legge … il R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 47, espressamente include nell’ambito dei “procedimenti disciplinari che siano stati iniziati” il momento della raccolta delle “opportune informazioni”, dei “documenti … necessari” e delle “deduzioni che … pervengono dall’incolpato e dal pubblico ministero”. L’istruzione predibattimentale non è dunque una fase precedente ed esterna al procedimento, nella quale l’avvocato sia tenuto, “osservando scrupolosamente il dovere di verità”, a dare “sollecita risposta” a richieste di “chiarimenti, notizie e adempimenti” in ordine a fatti che possono comportare una sua responsabilità disciplinare. Così intesa, la norma in esame contrasterebbe con la regola, basilare del diritto processuale in ogni campo, del nemo tenetur contra se edere, che è espressione del diritto di difesa costituzionalmente garantito e prevale quindi sull’esigenza del “pieno e corretto esercizio delle … funzioni istituzionale” dei Consigli degli ordini degli avvocati.
Il secondo capoverso dell’art. 24 del codice deontologico forense deve pertanto essere interpretato – come il suo tenore testuale consente – nel senso che sanziona la mancata risposta dell’avvocato alla richiesta del Consiglio dell’ordine relativa a un esposto presentato nei confronti di altro iscritto” (Cass. SS.UU. Sent. n. 4773/2011, pp. 5/6 della motivazione).
Il Collegio condivide tale principio, che trova piena applicazione nell’odierno giudizio, ma soltanto in relazione al capo e) della incolpazione. Per quanto riguarda, invece, l’illecito di cui al capo b), l’avv. M., in forza del citato principio, avrebbe potuto rifiutarsi fin dall’inizio di avviare una discussione transattiva, ma non violare, poi, all’impegno assunto, omettendo di dare una qualsiasi risposta alla proposta che gli era stata fatta e che di per sè non poteva pregiudicare in alcun modo il (futuro esercizio del) diritto di difesa. Nè lo stesso ricorrente ha spiegato perchè una eventuale risposta, anche semplicemente negativa, avrebbe potuto arrecargli pregiudizio. Quindi, l’omissione va ascritta ad illecito disciplinare per violazione dell’obbligo di collaborazione, di cui all’art. 24 del codice deontologico forense, così come rubricato, per il modus operandi dell’incolpato. Questi è venuto meno all’impegno assunto, che avrebbe potuto legittimamente non assumere.
Il comportamento omissivo illecito, nella specie, sussiste in quanto violazione di un impegno di collaborazione assunto liberamente e non perchè l’incolpato abbia violato un obbligo di collaborazione, derivante direttamente dalla legge.
Ne deriva che il principio di diritto già affermato da queste SS.UU. trova certamente applicazione in relazione alla incolpazione di cui al capo c), in quanto il fatto contestato è espressione di una scelta di strategia processuale, di un legittimo comportamento difensivo non collaborativo, all’interno del contraddittorio del procedimento disciplinare. Lo stesso non può dirsi per qunto attiene alla incolpazione di cui al capo b).
Peraltro, come già evidenziato, non risulta che l’avv. M. abbia chiarito di non volere dare seguito alla proposta transattiva di cui al capo b) per esercitare il proprio diritto di difesa. Tanto più che l’adesione alla proposta transattiva, verosimilmente, avrebbe fatto venir meno le ragioni del contendere con l’avv. M.B., e forse anche del procedimento disciplinare. Il comportamento omissivo tenuto dall’avv. M. (di mancato assolvimento dell’impegno assunto di valutare una proposta transattiva) non era in alcun modo collegato e/o collegabile all’esercizio del diritto di difesa in ambito disciplinare. E, quindi, correttamente il CNF lo ha ritenuto disciplinarmente illecito.
Conseguentemente, la sentenza impugnata va cassata soltanto nella parte in cui ha ritenuto sussistente la responsabilità disciplinare per il capo c).
Le censure del ricorrente si appuntano anche sulla parte della sentenza che afferma la responsabilità disciplinare per i fatti di cui al capo a) della incolpazione.
Si tratta di censure fondate.
E’ pacifico che Vari ed il quantum degli obblighi assunti dall’avv. M. nei confronti dell’avv. M.B. sono oggetto di controversia pendente (all’atto della incolpazione) dinanzi al giudice civile. Si tratta quindi di rapporti che non hanno il carattere della certezza, con la conseguenza che tale incertezza non consente di affermare, a priori, che il comportamento omissivo (omessi pagamenti) attribuiti all’incolpato siano comportamenti contra legem. Ciò non comporta che l’esito del giudizio civile sia pregiudiziale rispetto al giudizio disciplinare (trattandosi di giurisdizioni autonome, Cass. 26810/2007, 5164/2004, 762/2002);
comporta però che la pendenza del giudizio civile tra i due avvocati, non consente di considerare di per sè illecito disciplinare le posizioni assunte delle parti in causa, in coerenza con le rispettive tesi difensive.
Conseguentemente, il ricorso deve essere accolto in relazione alle censure con le quali viene contestata la legittimità della condanna del ricorrente per gli illeciti di cui ai capi a) e c) dell’atto di incolpazione, mentre va rigettato per il resto (capo b). Ne deriva che la sentenza impugnata deve essere cassata nella parte in cui ha condannato l’avv. M. anche per i fatti di cui ai citati capi a) e c), che invece non costituiscono illecito disciplinare. Alla cassazione della sentenza segue il rinvio a giudice disciplinare che deve rideterminare la sanzione, che deve essere commisurata con riferimento soltanto all’illecito di cui al capo b).
La richiesta di sospensione della esecuzione della sentenza è assorbita dalla cassazione della stessa.
Sussistono giuste ragioni per compensare le spese del giudizio di legittimità, in considerazione dell’accoglimento soltanto parziale del ricorso.
La Corte accoglie in parte il ricorso, cassa la sentenza impugnata in relaziona a quanto accolto e rinvia al CNF. Compensa le spese del giudizio di legittimità.